venerdì 30 dicembre 2016

Enrico Vanzina parla del cinema di Natale.

"Il cinema è in crisi, il Natale non porta più i grandi incassi. 
I film sono diventati più piccoli, e la gente non va più a vederli".

Al festival "Capri, Hollywood" in corso a Capri, Enrico Vanzina, autore di tanti cinepanettoni di successo, spiega perché quest'anno i film di Natale non sono andati bene al box office. E racconta i motivi profondi di una crisi che coinvolge il cinema al di la' del Natale.

CAPRI (NA). Al festival “Capri, Hollywood”, Enrico Vanzina arriva questa mattina, per parlare proprio di mercato del cinema. Sceneggiatore, produttore, giornalista, scrittore, Enrico è forse il primo autore – insieme al fratello Carlo – di quei film che poi sono stati chiamati “cinepanettoni”.



Tutto cominciò nel 1983, con “Vacanze di Natale”. O forse poco prima, con “Sapore di mare”. Comunque sia, Enrico Vanzina ha scritto, anno dopo anno, storie che legavano leggerezza, comicità, esotismo, seduzione.

          Ma adesso è il primo a rendersi conto che qualcosa è cambiato. Negli ultimi due anni, Enrico e Carlo Vanzina sono stati lontano dalla competizione dei film di Natale. E poche ore fa, Enrico ha lasciato che un video – che ha girato lui stesso col telefonino – raccontasse la sua amarezza. “Il video è diventato virale in poche ore”, racconta Enrico. “Ed è il vero, unico film di Natale di quest’anno”.

          Andiamo a vedere, incuriositi. Nel video appare una famiglia: tutti fermi, fissi davanti al proprio smartphone. Ognuno vede qualcosa. Ma non vede gli altri.

          E’ questo il motivo per cui il cinema sembra stare per affrontare la sua crisi più grave?
          “Anche per questo. Perché siamo tutti chiusi in noi stessi, tutti davanti a uno schermo di 7 pollici”.

          I film italiani non sono andati benissimo, questo Natale.
          “Sono andati malissimo. E il Natale non c’entra”.



          Ma qual è il motivo, secondo lei?
          “Un primo motivo è che ne sono usciti troppi. Quello di Boldi, quello di Scamarcio, quello di Luca Miniero con Bisio, altri tre immediatamente sotto Natale. Ma soprattutto, un vero ‘film di Natale’ non c’è” .

          Non ha detto che sono troppi?
          “Senza entrare nel merito di ogni film, il vero ‘film di Natale’ ha delle regole precise”.

          Quali?
          “Deve avere una sua leggerezza nazional-popolare. E poi dev’essere una fotografia del paese in cui viviamo, oppure dev’essere un grande viaggio esotico, come faceva Neri Parenti. Se ci fai caso, i vari ‘Natale a…’ erano dei kolossal esotici. Oggi sono film ‘piccoli’, produttivamente e come location. Il pubblico lo capisce, e capisce che non è qualcosa di tanto diverso da quello che vedono in tv. Lo dico senza acrimonia, sia chiaro”.

          Ma quale si avvicina di più a queste “regole”?
          “Alla fine, quello che fa più ridere è quello di Fausto Brizzi, ‘Poveri ma ricchi’; e poi Christian ha su di sé le stimmate del Natale. Il pubblico lo ha riconosciuto, e lo ha premiato”.



          Comunque gli incassi sono calati, tutti.
          “E’ un crollo generalizzato del cinema. E i motivi sono tanti”.

          Dica il più importante, secondo lei.
          “I film italiani sono troppo uguali gli uni agli altri, con gli stessi attori rigirati come nel gioco delle tre carte. Secondo problema: i giovani. Guardano gli smartphone, non il cinema”.

          Il cinema italiano si regge sui vecchi?
          “Sì. I giovani preferiscono spendere i loro 7 euro per l’happy hour, piuttosto che per il cinema”.  

          C’è anche la facilità di vedere i film a casa.
          “Soprattutto di vederli illegalmente. Un problema che non ha soluzione. Nessuno ci ha messo mano, nessuno ha fatto nulla”.

          Altre forme di spettacolo sembrano contrastarlo…
          “Esatto. E’ un assalto al cinema. Da parte del calcio, che da quando è frazionato, con una partita ogni sera, toglie spettatori in modo incredibile. Quando c’è una partita importante – e ce ne sono sempre più spesso – gli incassi crollano”.





          Soluzioni? Quali soluzioni vede?
“Il cinema di mezza età non trova più nemmeno le sale di centro città, tutto è spostato nei Multiplex. Così al cinema non vanno più. Una soluzione sarebbe rivedere il valore dei nostri film, quando vengono passati in televisione”.

Cioè pagare di più il passaggio televisivo?
“Sì. Pagare di più i film italiani, e di meno quelli americani, che non devono rimettere in piedi il loro bilancio, avendo un mercato enorme”.

          Non sarà un problema di prodotti, anche?
          “Certo. Tutti oggi fanno la commedia. Ma la commedia è una cosa seria. E poi, sono tutti vecchi”.

          Vecchi?
          “Sì. Io sono vecchio, ma i ‘giovani’ sono considerati Garrone, Sorrentino, Virzì, Genovese: gente che ha cinquant’anni, ben che vada. Non c’è un venticinquenne che emerge, né fra i registi né fra i comici. Non c’è stato ricambio generazionale. Sydney Sibilia e pochissimi altri, ma sono eccezioni”.

          Voi avete iniziato in un periodo di entusiasmi diversi.

          “Sì: ma oggi fare un film è paradossalmente molto più facile. Basta un telefonino. Ma quando abbiamo iniziato noi c’erano così tanti attori fantastici, Troisi, Verdone, Benigni, Nuti, Abatantuono, ed erano tutti giovani. E oggi?”. 

martedì 5 novembre 2013

Il film dei record è anche bello?

Sole a catinelle
Regia di Gennaro Nunziante.
Con Checco Zalone, Marco Paolini, Miriam Dalmazio, Robert Dancs, Aurore Erguy, Matilde Caterina
Italia, commedia, 2013
Durata: 90 min.


          Il film dei record, otto milioni d’incassi in due giorni, è anche bello? E’ gradevole, diciamo. Cerca anche di raccontare una storia, con personaggi di contorno esilissimi. Lui è un venditore di aspirapolvere senza una lira, stile “Alla ricerca della felicità” di Muccino: ha anche un figlio bravo e intelligente. Si ritrova nel mondo dei ricchi, gente che affama gli operai, annega nello champagne e fa cene di beneficenza per i poveri africani: lui negli yacht, a giocare a golf… Prende in giro i maestri di yoga, i vegani, gli psicologi e i radical chic. La gag del film girato a San Galgano – uno dei set di Tarkovskij – è una presa in giro poco generosa del cinema d’autore.


** 2 palle 

venerdì 4 ottobre 2013

Corso di giornalismo cinematografico!

Inizierà a metà ottobre, presso la scuola di cinema Immagina, un corso di giornalismo cinematografico. Lo cura il sottoscritto, cioè Giovanni Bogani. Giornalista dal 1987, ormai incartapecorito nell'ostinazione a usare i congiuntivi e gli accenti come gli avevano insegnato a scuola. Diffidente verso Twitter e whatsapp, discreto utente di Facebook, cantante a tempo perso, visitatore di festival di cinema, instancabile intervistatore di divi, registi, sceneggiatori, produttori e chiunque abbia fatto qualcosa di vagamente memorabile. Ricercatore di notizie come altri cercano le promozioni al supermercato, tenace difensore di film che crede bellissimi, inutile detrattore di blockbuster che faranno milioni di euro al botteghino. Vive nel suo quarto piano con vista sull'infinito, e ogni tanto va alla scuola Immagina a raccontare il suo mestiere.


domenica 8 settembre 2013

Barbera e champagne (per Rosi)


          di Giovanni Bogani

VENEZIA. Il trionfatore di Venezia è lui, Gianfranco Rosi, quarantanove anni, documentarista, l’autore di “Sacro Gra”, il film che segue le vite di alcuni personaggi – desolati, bizzarri, soli – lungo il Grande raccordo anulare di Roma.  

          Rosi ha grandi occhiali tondi, e ricorda un po’ Michael Nyman, il musicista inglese di “Lezioni di piano”. I suoi film non sono così conosciuti al grande pubblico, anche se sono stati premiati in molti festival internazionali. Il suo film precedente, “El sicario”, la sconvolgente confessione di un trafficante di droga sudamericano, aveva conquistato proprio alla Mostra del cinema di Venezia il premio Fipresci della critica internazionale, ed era stato votato miglior documentario italiano dell’anno.


        

  Ma un Leone d’oro è un’altra cosa. E’ il premio di eccellenza in un festival che vedeva in competizione grandi maestri, film narrativi tesi, sconvolgenti, scandalosi. E il suo è un documentario: il primo a vincere un Leone d’oro a Venezia. Un successo tanto travolgente quanto inaspettato: che farà anticipare l’uscita in sala del film, già prevista per il 26 settembre.

          “E’ qualcosa che non mi aspettavo”, dice il regista, intercettato all’hotel Excelsior del Lido di Venezia, poche ore dopo la vittoria. “Sono felice per le persone che appaiono nel film, per tutti coloro che mi hanno aperto le porte della loro vita. Quello che vediamo nel film è solo la punta dell’iceberg, di un lavoro durato tre anni”, ricorda. “C’è moltissimo materiale che non ho potuto montare nel film, storie che proseguono, altre che sarebbe stato bello raccontare”. Rosi doveva tornare subito negli Stati Uniti, dove vive: “Invece questa vittoria mi porta a rimanere in Italia, per seguire l’uscita del film”.


          Il cinema italiano non vinceva a Venezia dal 1998, l’anno di “Così ridevano” di Gianni Amelio. Quanto avrà influito il fatto che presidente della giuria fosse un regista italiano di immenso carisma e prestigio come Bernardo Bertolucci? Ad Alberto Barbera, direttore della Mostra, il compito di rispondere: “Quando c’è presidente della giuria un italiano e i film italiani non vincono, c’è polemica perché non sono stati premiati. Quando un film italiano vince, ci si chiede se sia stato premiato perché è un film italiano. Sono dietrologie assurde. Semplicemente, nove giurati provenienti da paesi diversi hanno condiviso un palmarès”.

          Gli chiediamo se il palmarès sia stato condiviso all’unanimità. “No, non è stato un Leone all’unanimità. Ma non ci sono state contrapposizioni frontali: chi sosteneva altri film non era contrario al Leone a ‘Santo Gra’. La riunione di giuria è durata tre ore e mezza. E posso testimoniare che non c’è stata nessuna manipolazione né  prevaricazione da parte di Bernardo Bertolucci. Così come nessuno dei giurati aveva atteggiamento di sudditanza verso di lui. Solo il grande rispetto che Bertolucci ha meritato con tutta la sua carriera”.
 
        Riguardo al premio per l’attrice Elena Cotta, protagonista di “Via Castellana Bandiera”, esordiente nel cinema a ottantadue anni, dopo una vita di teatro, Barbera dice “a proporre il premio per lei sono stati dei giurati stranieri. Si è parlato di una rosa di tre o quattro attrici, e alla fine si è imposto il nome di Elena Cotta”. 

          Colpisce, in questa edizione della Mostra, l’ossessivo ricorrere – nei film – di un tema: quello della famiglia disgregata, spappolata, dominata da violenze silenziose che esplodono. Violenze sulla donna, violenze sulle figlie. Come se molti film si fossero raccolti attorno a un’idea, a un tema. Per caso. O forse no. “Se guardate la cronaca nera, non passa giorno che non ci sia una cronaca di violenza familiare”, dice Alberto Barbera. “Che il cinema intercetti questo tema è normale. Che ci siano dei film su questi temi non è che una delle conseguenze della crisi della società. Noi, certo, non abbiamo ‘organizzato’ i film attorno a un tema. Quando vedi un film, ti piace e non sai di che cosa parlerà il successivo”. 

          Sono stati millecinquecento, dice Barbera, i film visionati. Tra questi, centocinquanta film di finzione erano italiani, ai quali vanno aggiunti settanta documentari. “Purtroppo, alla quantità non corrisponde sempre la qualità. Si fanno molti film, ma girati in fretta, senza fare attenzione alle sceneggiature, con poco tempo per girare. E alla fine i prodotti non vengono bene. Il cinema italiano deve ritrovare una qualità media alta: non sarà una singola commediola o commediaccia a salvarne le sorti. Quella farà solo la fortuna di quel produttore”.


          Uno dei film italiani di quest’anno, però, gli ha dato un dispiacere: è quello di Daniele Luchetti, “Anni felici”, che sarà presentato al festival di Toronto. “Daniele mi ha detto subito: ‘mi dispiace, ma non me la sento di venire a Venezia’. Ha preferito andare a Toronto. E’ uno strano terrore di venire a Venezia, di confrontarsi col festival; non lo comprendo appieno, ma lo rispetto. Però è l’unico film che non è venuto. Oltre a quello di McQueen: Steve mi ha spiegato che per loro, in questo caso, il mercato americano era troppo importante. Ma è l’unico regista che mi ha creato un dispiacere”.

giovedì 5 settembre 2013

Aspettando un colpo di scena che non arriverà mai: "Une promesse" di Patrice Leconte

Patrice Leconte presenta fuori concorso alla 70. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia "Une promesse", con protagonista una triade very british style.

Tratta da una novella di Stefan Zweig, la pellicola, ambientata nella Germania di inizio Novecento, propone una trama al quanto banalotta: giovane e bella moglie (Rebecca Hall) di attempato e ricco uomo d'affari (Alan Rickman), si invaghisce del giovane e affascinante, ma povero, assistente di quest'ultimo (Richard Madden, noto al grande pubblico come Robb Stark della serie televisiva "Il trono di spade").
A frenare la messa in atto del loro sentimento amoroso, non è solo l'affetto e la stima provata nei confronti dell'ottimo Alan Rickman, ma anche e soprattutto il trasferimento del bell'Adone oltreoceano per questioni lavorative. I due amanti, quindi, non consumeranno mai carnalmente la loro passione (nonostante le numerose provocazioni del ragazzo),  promettendosi però di ricongiungersi al ritorno di lui in patria; ha inizio così un esasperante rapporto espistolare interrotto dall'immimente arrivo della Grande Guerra.
In tutto ciò, il marito pare quasi non accorgersi dello svolgersi degli eventi, se non quando in punto di morte rivelerà alla moglie le sue reali intenzioni, ossia di fare in modo che la donna amata e il loro figlioletto, non rimanessero soli dopo la sua dipartita, e ha quindi permesso che questo amore clandestino avesse luogo, pur essendone allo stesso tempo geloso.
A guerra conclusa, dopo svariati anni, l'avvenente assistente, ormai divenuto un maturo uomo d'affari, si ricongiungerà con la sempre affascinante Rebecca Hall, e invece di dare finalmente libero sfogo alle loro voglie più recondite, per un'altra trascinata porzione di pellicola non accadrà nulla, se non un castissimo e agognato bacio a chiusura del film.
E dove sta il sesso che il pubblico tanto attende?
E soprattutto, non appare troppo forzato ed eccessivo il pathos che l'attore Richard Madden carica in ogni situazione, dalle più alle meno consone? Ogni tanto verrebbe voglia di prenderlo a sberle per farlo rinvenire.
Per quanto riguarda Rebecca Hall fin quando non svela il suo amore segreto, risulta pienamente nel ruolo affidatole per poi ricadere nella stessa pateticità del suo amante.
Alan Rickman come sempre impeccabile e assolutamente godibile.
Ultimo appunto al regista, il quale talvolta compie dei movimenti di macchina frenetici, immotivati e azzardati, che rievocano un certo cinema alla Lars Von Trier.
Film riuscito a metà, soprattutto per ciò che riguarda il finale; sarebbe stato piuttosto preferibile il mostrare fino in fondo l'incoronamento totale di questo tanto bramato amore o al contrario lasciare spazio alla drammaticità con un'interruzione secca della relazione.
Leconte preferisce invece dare una svolta melodrammatica allo stile della Hollywood classica che può lasciare un po' insoddisfatto il pubblico di oggi.


di Francesco Foschini e Martina Nocella

mercoledì 4 settembre 2013

Per esempio, Scarlett




di Giovanni Bogani

VENEZIA. Ha avuto coraggio, Scarlett. Mentre approda al Lido di Venezia, con una canottiera a righe bianche e nere, pantaloni neri a vita alta, tacchi a spillo, e quell’aria bionda, luminosa, morbida che ha fatto innamorare mezzo mondo, pensi al film che ha fatto.

         Un film praticamente senza dialoghi, tutto affidato a lei, ma con un personaggio non troppo chiaro. Un film in cui l’attrice di “Lost  in Translation” e dei film di Woody Allen, adesso ventisettenne, rischia anche il nudo integrale, in più di una scena. Un film rischioso perché Scarlett nel film è un’aliena. Non ha disposizione parole, e quasi sempre deve guardare fisso, nel vuoto. Intorno, il più desolato dei paesaggi, il vuoto verde e piovoso delle Highlands scozzesi. Un deserto umido, popolato di uomini soli.

         Ha rischiato, Scarlett. Non c’è romanticismo, nel film. La sua icona di ventenne graziosa qui l’ha scambiata con un dna di aliena, e con un caschetto di capelli neri. Un film rischioso, per un progetto al quale lei lavorava, insieme al regista di videoclip Jonathan Glazer, da almeno otto anni.




         Il film, tratto da un romanzo di Michel Faber, edito in Italia da Einaudi, è già stato presentato al festival di Telluride, e dopo Venezia sarà proiettato al festival di Toronto. Qui ha avuto un’accoglienza non troppo felice. I fischi, alla proiezione stampa, hanno superato gli applausi. Ma quando lei appare all’incontro con i giornalisti, torna il sole. 

         Scarlett, come ha affrontato questo personaggio?
         “Non avevo un’idea preconcetta per prepararmi a questo ruolo. E’ un personaggio che parte come tabula rasa, essendo un’aliena. Nella prima giornata di set, ho capito dove doveva andare questo personaggio. Ma mi ci sono volute due settimane per entrare davvero in lei”.

         Qual è, per lei, il tema vero del film?
         “Non si fanno film sui temi; si raccontano delle storie.e questa era già tutta nel romanzo di Michel Faber, da cui abbiamo tratto il film”.


         Ma è vero che avete girato anche con delle telecamere nascoste, per riprendere le reazioni di persone vere, che avete inserito nel film?
         “Sì. Jonathan Glazer voleva che il film avesse un aspetto realistico: per questo ha fatto costruire delle cineprese piccolissime. Ce ne erano otto che riprendevano da punti di vista diversi. In una scena cado rovinosamente in una buca del marciapiede, Beh, è interessante notare la reazione della gente: alcuni mi fissavano e continuavano a camminare; altri mi riprendevano col telefonino, senza aiutarmi. Abbiamo girato gran parte del film senza che la gente se ne accorgesse”.

         Che tipo di esperienza è stata, per lei, girare questo film?
         “Ovviamente, diversissima da ogni altro film che ho girato. Questo è un esperimento puro, diverso dal cinema narrativo. Interpretarlo, rispetto ai film più ‘classici’, è stato come usare dei muscoli diversi che non sapevi di avere. Per me è stata una sorta di terapia”.

         Quale è stata la scena più difficile da interpretare, per lei?

         “E’ stata quella con Adam”. Adam Pearson non è un attore: è un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia che provoca tumori benigni che deformano il corpo. Nel suo caso, il volto. In una parola, Adam è come l’Elephant Man del film di David Lynch.  “Adam non è un attore: è stato difficile farlo sciogliere, prenderlo alla sprovvista mentre non era sulla difensiva. C’è questa scena in cui io gli carezzo il viso, e il collo: credo che lui, con la sua ritrosia, cercasse di proteggere la sua vulnerabilità”. 



Falce e rossetto. Incontro con le Femen

di Giovanni Bogani

La rivoluzione glam. Falce e rossetto. Macché baffoni, operai, proletariato: loro hanno inventato la rivoluzione in topless.

Loro chi? Le Femen. Sono belle, bionde e nude. Invece di far parte del cast di un film di 007, stanno dentro quello strano film sempre più folle che è la nostra vita. Costellata di telegiornali, di foto su Internet. La loro potenza mediatica è esplosiva: arrivano in un luogo, mostrano ai fotografi i loro seni nudi e gli slogan che, di volta in volta, vi scrivono sopra. Sono dei dazebao in movimento, dei telegrammi recapitati all’umanità con la forza assoluta dei loro corpi. Sono gli ideogrammi di una rivoluzione chic.




Insomma, un fenomeno non da poco. Delle ragazze ucraine che per combattere la mercificazione del corpo femminile usano il corpo femminile, e il suo immenso potenziale di magnetismo, di seduzione. Loro sono più pop delle Marilyn ripetute da Andy Warhol. E non riesci a decidere se combattono per un mondo migliore, o se prima di tutto non sono perfette pubblicitarie di loro stesse.

Per capirci qualcosa di più, era utile essere a Venezia, ieri. Perché c’era, tra le proiezioni speciali, l’anteprima mondiale di “L’Ucraina non è un bordello”. Il film che racconta origini, presente e futuro del movimento Femen. Lo ha diretto una ragazza che potrebbe essere una di loro: bionda, giovane, bellissima. Si chiama Kitty Green, è australiana ma col trucco: la madre è ucraina, e lei con le Femen si intende benissimo. Ha passato quasi un anno con loro, in uno di quei casermoni ex sovietici che mettono tristezza solo a guardarli un minuto, così densi di cemento e di rassegnazione, da dove pensi impossibile progettare niente di più che gettare la spazzatura al mattino. Sembra impossibile che da lì siano venute fuori delle pasionarie da copertina patinata. Ketty ha partecipato alle azioni delle Femen, si è fatta arrestare con loro a Roma; ha parlato con le più coraggiose, si è fatta raccontare la loro vita. E ce la mostra. In un film vivace, ben filmato, ben montato, non agiografico né banale.
        


         Apprendiamo che le Femen sono nate cinque anni fa. Sentiamo parlare alcune di loro, le vediamo allenarsi: perché, da soldatesse della bellezza e della guerriglia mediatica, devono imparare a scappare in fretta, e a proteggersi dalle botte della polizia. Vediamo alcune delle loro azioni: far suonare le campane all’impazzata in una chiesa di Kiev, bloccare gli ingressi alla metropolitana, rischiando le botte. Oppure in Turchia, truccarsi da donne islamiche, con l’hijab, e da donne sfigurate con l’acido.

         Però, tra le pieghe del film, viene fuori qualcosa di strano. Per esempio, nell’azione che le Femen fanno in Turchia, i costi sono sostenuti tutti da uno sponsor, un produttore di lingerie. E per un’altra azione di protesta, sentiamo il loro leader, il loro capo – un maschio! Si chiama Viktor – dire: “Quella, se non fa bene la sua performance, i suoi 200 dollari se li scorda”. Come un produttore di cinema, o un impresario teatrale. E in un’altra occasione apprendiamo che vendono T-shirt e altro con il logo Femen. Tutto un universo di merchandising che è un po’ lontano dall’immagine di rivoluzione che abbiamo noi.

         Insomma: né Lenin, una cui frase è pure tatuata sul decolleté di una delle ragazze – “studiare, studiare, studiare” – né Fidel Castro, e neppure Cristo o San Francesco, rivoluzionari quanto e più degli altri. La rivoluzione delle Femen passa dalla carta di credito. E dai media. Combattono la mercificazione, se si vuole, mercificandosi. Però la vita che si sono conquistata è di gran lunga migliore di quella di tante loro coetanee.

“In Ucraina oggi prostituirsi sembra una scelta obbligata. Le ragazze non vengono tenute in nessun conto nella società. A chi vuole trovare un lavoro viene proposto solo di andare a letto con chi glielo può procurare”, dice Inna all’incontro stampa. “Se non vogliono andarci, quel lavoro se lo scordano. L’unica prospettiva è diventare una schiava in famiglia o lavorare per il turismo sessuale. Noi combattiamo contro tutto questo”.


Loro sì che ci sono riuscite. Rischiando le botte della polizia e il carcere. Però adesso sono luminose, perfettamente truccate, con i tacchi a spillo, i fiori tra i capelli, non hanno lividi, e sono delle dive a tutti gli effetti. Dimenticavamo: adesso vivono in Francia.